Avete già sentito parlare della Great Pacific Garbage Patch? È l’enorme ammasso di rifiuti, per lo più plastici e provenienti da tutto il mondo, che si è accumulato al largo dell’Oceano Pacifico.
Dalle associazioni ambientaliste mondiali è considerato una vera e propria bomba a orologeria: molto più grande di quanto si creda e molto più grave del previsto. Il tutto ovviamente in conseguenza della quantità, ampiamente superiore rispetto alle stime, di rifiuti accumulati.
Quando si parla di Great Pacific Garbage Patch, si sente parlare anche di Progetto Kaise. Ma cosa li lega? Ve lo raccontiamo in questo approfondimento.
Sommario:
Rifiuti di plastica: 103 le tonnellate raccolte per ripulire l’Oceano Pacifico
La Great Pacific Gargabe Patch e le cause della sua origine
Il progetto Kaise e lo straordinario record dello scorso giugno
Un problema dai confini mondiali con conseguenze terrificanti
Esiste una soluzione? Sì, riguarda la consapevolezza
La Great Pacific Gargabe Patch e le cause della sua origine
L’esistenza della “grande chiazza” di immondizia, così come viene definita la Great Pacific Garbage Patch, è stata preventivata già negli anni 80: la previsione fu formulata grazie ai dati ottenuti da diversi ricercatori in Alaska, tra il 1985 e il 1988, che misurarono gli accumuli dei materiali plastici nel nord dell’Oceano Pacifico.
Tra le cause che ne hanno determinato la formazione si ritrovano certamente i detriti dispersi nell’oceano dalle grandi navi cargo in transito e rovesciati dalle correnti oceaniche. Ma anche l’uomo, con le sue azioni, ci mette lo zampino: ci riferiamo soprattutto ai rifiuti non riciclati correttamente.
Comportamento, questo, causato spesso dall’appannaggio della biodegradabilità che tende – purtroppo – ad alleggerire le responsabilità del singolo sulle prassi da seguire per smaltire correttamente un rifiuto riciclabile.
Perché allora l’UNEP – United Nations Environment Programme (ovvero il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente) considera la “grande chiazza” una bomba a orologeria?
La risposta è chiara: l’ammasso di spazzatura diventa sempre più visibile dallo spazio. Segnale, questo, di un accrescimento fuori controllo. E non solo: oltre alle microplastiche, sono sempre più presenti rifiuti di grandi dimensioni che tendono a deteriorarsi, trasformandosi in microdetriti.
Il progetto Kaise e lo straordinario record dello scorso giugno
La notizia ha fatto scalpore, per fortuna in termini più che positivi: alla fine di giugno 2020, 103 tonnellate di plastica disperse nel mare sono state raccolte e spedite presso appositi centri di riciclo.
L’operazione è avvenuta nell’ambito del progetto Kaise, una missione scientifica che studia il fenomeno e cerca di intervenire con azioni pratiche e concrete. Proprio come quella dello scorso giugno.
Il progetto Kaise è stato lanciato nel 2009 dall’Ocean Voyages Institute, associazione no-profit con sede a San Francisco. Anche a giugno dello scorso anno fu compiuta un’altra missione durante la quale furono raccolte 40 tonnellate di rifiuti. Il tutto avviene con l’utilizzo di tecnologie efficaci e di precisione, come radiofari galleggianti con GPS e droni, che permettono un accurato monitoraggio dell’area e semplificano l’organizzazione delle operazioni di recupero.
Un problema dai confini mondiali con conseguenze terrificanti
Il problema dell’accumulo di plastica non riguarda solo l’Oceano Pacifico: le isole di plastica sono ormai sette e si trovano dall’oceano Artico al mar dei Sargassi, nell’Atlantico, nel Pacifico e nell’Indiano. E se pensate che il problema non tocchi noi italiana, vi diciamo che vi state sbagliate: anche nel Mediterraneo ce n’è una.
A cosa si devono queste isole di plastica? Sono dovute al fatto che solo il 15% della plastica prodotta viene correttamente riciclata, al punto che gli esperti stimano che entro il 2050 il loro peso sarà superiore a quello dei pesci.
E le stime economiche sul futuro non sono di certo buone: gli esperti del settore mettono in conto perdite tra 259 e 695 milioni di euro che colpiranno principalmente i settori ittici e del turismo. Senza dimenticare i danni biologici: la plastica ferisce gli animali, oltre a causare la loro morte per ingerimento e conseguente soffocamento.
E a dire la verità, il problema non è nemmeno dato dai rifiuti più grandi (in termini di dimensioni) bensì dalle microplastiche che si formano per la degradazione, provocata dal sole e dalla corrente, che modifica la molecola rendendola più microscopica e quindi più pervasiva, dunque capace poi di arrivare, come è stato dimostrato, addirittura sui ghiacciai alpini.
Esiste una soluzione? Sì, riguarda la consapevolezza
Inutile ribadire che le azioni di pulizia messe in campo dall’ Ocean Voyages Institute sono fondamentali. Ma questi interventi da soli non bastano.
Occorre agire alla fonte: in altre parole, occorre prevenire che la plastica entri negli oceani e nei mari. E per perseguire questa strada, il primo grande passo da compiere ha a che fare con la consapevolezza: rendere il consumatore consapevole su come usare la plastica, ma soprattutto su come smaltirla mantenendo un occhio di riguardo alla salvaguardia della salute ambientale.